La soluzione al caso posto si rinviene nelle norme che il codice civile detta in tema di comunione in generale (applicabili alla comunione ereditaria) e di divisione ereditaria.
Principio generale su cui occorre innanzitutto ragionare è quello espresso al primo comma dell’art. 1103 del c.c., in cui è detto che ciascun partecipante può cedere ad altri il godimento della cosa nei limiti della sua quota.
Tale principio, tuttavia, non può intendersi nel senso che qui ci si auspicherebbe, ossia nel senso che la volontà contraria di uno solo dei partecipanti alla comunione potrebbe impedire agli altri comunisti di concedere a terzi il godimento del bene comune, così da sfruttarlo economicamente, farne propri i frutti civili e trarne un vantaggio economico (sostenere questo significherebbe ledere, nei confronti degli altri comproprietari, il contenuto essenziale del diritto di proprietà, quale si trova espresso all’art. 832 del c.c.).
E’ per tale ragione, infatti, che il predetto art. 1103 c.c. va necessariamente coordinato con i successivi artt. 1105, 1108 e 1109 c.c., i quali si occupano di disciplinare con quali maggioranze vanno prese le deliberazioni riguardanti il compimento di atti di ordinaria e straordinaria amministrazione ed in quali casi alla minoranza dissenziente va riconosciuto il diritto di impugnare una deliberazione.
Il terzo comma dell’art. 1108 c.c. qualifica come atti di straordinaria amministrazione, per il cui compimento si richiede il consenso unanime di tutti i partecipanti, gli atti di alienazione, costituzione di diritti reali e le locazioni di durata superiore ai nove anni.
Già dalla lettura di questa norma è possibile trarre le prime risposte a quanto osservato nel quesito:
- lo stabile in comunione ereditaria può essere alienato solo con il consenso unanime di tutti i comproprietari;
- il contratto di locazione che Caio e la sorella vorrebbero rinnovare a colui che già conduce in locazione l’immobile non avrebbe durata superiore a nove anni, il che comporta che tale atto non possa farsi rientrare tra quelli di straordinaria amministrazione, per il cui compimento è richiesta la c.d. maggioranza rafforzata o qualificata, ossia la maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune.
Non rientrando il contratto in discussione tra gli atti di straordinaria amministrazione, norma applicabile rimane l’art. 1105 c.c., il cui secondo comma dispone che per il compimento degli atti di ordinaria amministrazione è sufficiente la c.d. maggioranza semplice, ovvero la maggioranza dei partecipanti alla comunione calcolata secondo il valore delle loro quote (il raggiungimento di detta maggioranza rende la delibera obbligatoria nei confronti della minoranza dissenziente).
La minoranza dissenziente, tuttavia, non viene lasciata priva di tutela, in quanto l’art. 1109 c.c. riconosce a coloro che sono rimasti in minoranza e che, pertanto, non hanno avuto possibilità di far valere le proprie ragioni, il diritto di impugnare la delibera, ma nei limitati casi e per le specifiche ragioni ivi previste.
Tra questi, quello che meglio potrebbe adattarsi al caso di specie è l’ipotesi prevista al n. 1 di tale norma, riguardante l’adozione di una delibera che risulti gravemente pregiudizievole alla cosa comune.
La sua natura pregiudizievole potrebbe farsi discendere da quella che nel quesito si definisce come “barcollante” capacità economica del conduttore, ma non si può fare a meno di evidenziare che si tratterebbe di un motivo di impugnazione massimamente aleatorio, in quanto il giudice, investito della potenziale controversia, non potrebbe non tener conto, nell’adottare la sua decisione, che si tratta di conduttore con cui già intercorre un rapporto contrattuale e, per giunta, per un secondo novennio.
Dovendosi, dunque, consigliare di accantonare l’idea di impugnare una eventuale delibera della maggioranza con cui si andrà a decidere di rinnovare il contratto di locazione, rimane una sola alternativa, ossia quella di avvalersi del diritto che l’art. 1111 del c.c., in materia di comunione in generale, nonché l’art. 713 del c.c., in materia di comunione ereditaria, riconosce come innegabile ed esercitabile in qualsiasi momento, ossia quello, riconosciuto a ciascun comunista, a prescindere dal valore e dalla misura della sua quota, di chiedere lo scioglimento della comunione.
Qualora la propria richiesta di divisione non dovesse essere accolta dagli altri coeredi (ossia in difetto di una divisione consensuale), l’ordinamento giuridico riconosce il diritto di ottenere giudizialmente lo scioglimento di quella comunione ereditaria, tenendosi presente che gli altri coeredi non potrebbero cercare di trarre profitto da una eventuale situazione di indivisibilità del bene, ad esempio asserendo che, trattandosi di immobile destinato ad albergo, la sua divisione ne farebbe perdere l’attuale destinazione economica.
Per tali ipotesi, infatti, può invocarsi il disposto di cui all’art. 720 del c.c., il quale prevede la possibilità che l’immobile venga compreso per intero nella porzione del coerede avente diritto alla quota maggiore o anche nelle porzioni di più coeredi, se questi ne richiedono congiuntamente l’attribuzione.
In mancanza di tale richiesta, il giudice autorizzerà la vendita all’incanto dell’intero immobile.